Luigi Pirandello, Enrico IV – CENTENARIO – Parte quinta

Didascalia finale del primo atto, Enrico IV in: Luigi Pirandello, Maschere nude, Volume I, I edizione I classici contemporanei italiani, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1958, BMF, Fo.C.2515.

di Vincenza Bordenca

Continua dalla quarta parte

Quanto più si avvicina l’ingresso in scena di Enrico IV, tanto più gli elementi tragici e comici si intrecciano e intersecano in un movimento che diventa sempre più rapido. Quello che fino a questo momento era mancato, era un sentimento di empatia, di pietas che adesso, invece, affiora e poi si fa più evidente nel personaggio di Matilde Spina (la donna amata dal giovane Enrico IV), fino a rivelarsi pienamente come malcelato sentimento d’amore. Sarebbe interessante vedere lo sviluppo del personaggio nelle sfaccettature emotive e nel dispiegarsi di un sentimento sfortunato che non ha potuto vivere nel mondo esterno, ma solo nell’intimo dei cuori di un uomo e di una donna distanti 800 anni. Pirandello mostra nel pallore di Matilde, nelle sue gote che si tingono a tratti, nel suo essere assorta e lontana, distratta, nelle sue risposte ora accorate e sincere, ora stizzite e aspre, il travaglio emotivo che sta vivendo. Si potrebbe guardare nelle pieghe della sua anima, come l’autore ci inviterebbe a fare, ma porterebbe lontano; qui basti ricordare che è proprio questo amore non vissuto che sarà causa della tragedia finale. E’ come se l’elemento tragico, arricchendosi di nuovi ingredienti, lievitasse, e quella che era già una tragedia compiuta, la follia causata da una caduta in un giovane di ventisei anni, sfociasse in un’altra e definitiva, senza possibilità di salvezza.

Formalmente siamo sempre all’interno del primo atto: il dottore, che poco conosce della complicata situazione del suo nuovo paziente, viene informato sulla attuale situazione e su quello che era avvenuto venti anni addietro. (Riportiamo qui alcune tra le battute più significative , non necessariamente nella loro successione):

DI NOLLI: […] è diventato, con la pazzia, un attore magnifico e terribile!

BELCREDI: Ma fin da principio! Si figuri che, quando avvenne la disgrazia, dopo che cadde da cavallo…

DONNA MATILDE: Ah, che orrore! […]! Lo vidi tra le zampe del cavallo che s’era impennato…

BELCREDI: Si credette soltanto svenuto…

DONNA MATILDE: Ah, ma che faccia aveva! Io me ne accorsi subito!

BELCREDI: Ma no! […]! Non ce n’accorgemmo nessuno, dottore, capite?

BELCREDI: Recitava ognuno per burla la sua parte! […]

DONNA MATILDE: Lei immagina, dottore, che spavento, quando si comprese che egli, invece, la sua, la recitava sul serio?

BELCREDI: […] sguainò la spada, avventandosi contro due o tre. Fu un momento di terrore per tutti!

DONNA MATILDE: Non dimenticherò mai quella scena, di tutte le nostre facce mascherate, […], davanti a quella terribile maschera di lui, che non era più una maschera, ma la Follia!

I racconti di quelli che erano stati gli amici di gioventù dell’imperatore si arricchiscono di particolari, offrendo all’uomo di scienza spunti sempre più preziosi per dipanare l’intricata matassa. Scorrono davanti agli occhi strabiliati del dottore fatti di ieri e di oggi, là dove ieri, sul piano temporale reale sono venti anni addietro e ottocento anni prima sull’altro piano, quello della follia. Un tempo che si restringe e si dilata, si apre e si chiude come in una fisarmonica e che, per contrasto, è contenuto nello spazio di una giornata (quella della presa di servizio di Bertoldo, il neoassunto consigliere dell’imperatore germanico). In un’opera che scardina e annulla il tempo, la legge teatrale dell’unità di tempo aristotelica, secondo cui l’azione di un’opera si deve svolgere in un’unica giornata, dall’alba al tramonto, è comunque rispettata: contenitore classico per un contenuto modernissimo.

L’idea del dottore è quella di provocare uno shock nel paziente facendogli rivivere la situazione di venti anni prima; approfittando della somiglianza di Frida con la madre, fare incontrare i due lasciando credere all’uomo di rivivere l’incontro con la donna da lui sempre perdutamente amata. L’esperienza traumatica dovrebbe, secondo il luminare, ricondurre per reazione il povero folle alla realtà dei suoi veri giorni. Si assegna a ciascun personaggio il proprio ruolo e travestimento per questa recita di guarigione, e tutto viene organizzato nei minimi particolari: Frida sarà Matilde, Matilde vestirà i panni della duchessa Adelaide, suocera dell’imperatore, il dottore quelli dell’abate Ugo di Cluny, e Belcredi sarà un semplice monaco benedettino al seguito del Monsignore.

LANDOLFO: Benissimo. Stia tranquillo. Monsignore è stato sempre accolto qua con grande rispetto. E anche lei, stia tranquilla, signora Marchesa. Ricorda sempre che deve all’intercessione di loro due se, dopo due giorni di attesa, in mezzo alla neve, già quasi assiderato, fu ammesso nel castello di Canossa alla presenza di Gregorio VII che non voleva riceverlo.

(Improvvisamente viene annunciato l’imprevisto ingresso in scena di sua Maestà):

ARIALDO: Sua Maestà l’Imperatore!

(Entrano prima i due Valletti che vanno a postarsi ai piedi del trono. Poi entra […], Enrico IV. […] presso alla cinquantina, pallidissimo, e già grigio sul dietro del capo; invece, sulle tempie e sulla fronte, appare biondo, per via di una tin­tura quasi puerile, evidentissima; e sui pomelli, in mezzo al tragico pallore, ha un trucco rosso da bambola, anch’esso evidentissimo. Veste sopra l’abito regale un sajo da penitente, come a Canossa. Ha negli occhi una fissità spasimosa, che fa spavento);[…]

Sua Maestà appare in tutta la tragicità del suo essere; il volto di uomo di mezza età è davvero una maschera dipinta: la capigliatura grigia dietro e sfacciatamente bionda sul davanti, il viso cereo con le gote rosse da bambola, lo sguardo fisso, stravolto, come allucinato. Si rivolge all’abate con parole vibranti e accorate raccontandogli le vicende dolorose della sua triste esistenza.

ENRICO IV: Nulla è bastato a costoro! – Un povero ragazzo, Monsignore… Si passa il tempo, giocando – anche quando, senza saperlo, si è re. Sei anni avevo e mi rapirono a mia madre, e contro lei si servirono di me, ignaro, e contro i poteri stessi della Dinastia, profanando tutto, rubando, rubando; uno più ingordo dell’altro […].

ENRICO IV: […] Ma, dico, se si nasce e si muore! – Nascere, Monsignore: voi l’avete voluto? Io no. – E tra l’un caso e l’altro, indipendenti entrambi dalla nostra volontà, tante cose av­vengono che tutti quanti vorremmo non avvenissero, e a cui a malincuore ci rassegniamo!

DOTTORE: (tanto per dire qualche cosa, mentre lo studia attentamente): Eh sì, purtroppo!

L’arte di Pirandello si fa fine strategia narrativa: il gioco delle parti si ingarbuglia, e dal dialogo / monologo di Enrico si intravede una seconda verità: le sue parole, i suoi sottintesi, le sue allusioni, i suoi sguardi dicono e non dicono, velano e svelano…

Quello che né il dottore, né i salvatori venuti in soccorso di Enrico IV sanno, è che, in realtà, l’uomo è già misteriosamente e improvvisamente guarito da alcuni anni, e che adesso sta semplicemente e magistralmente indossando la sua maschera e recitando la propria  parte. Le parole usate da donna Matilde per scolpire in immagine il tragico avvenimento della caduta da cavallo e l’enorme portata delle sue conseguenze, sono più che mai vere e attuali anche ora che la pazzia non c’è più: se prima la terribile maschera di Enrico IV non era più una maschera ma la Follia!, adesso non è più follia, ma rimane una maschera.

ENRICO IV: Ecco: quando non ci rassegniamo, vengono fuori le velleità. Una donna che vuol essere uomo… un vecchio che vuol esser giovine… – Nessuno di noi mente o finge! – C’è poco da dire: ci siamo fissati tutti in buona fede in un bel concetto di noi stessi.

Che la recita sia vera o fasulla, che le cause siano volute o subite non conta, e si leva alto il grido di dolore dell’uomo che si vede passare avanti la propria vita senza poterla vivere. Enrico IV prosegue così:

Monsignore, però, mentre voi vi tenete fermo, aggrappato con tutte e due le mani alla vostra tonaca santa, di qua, dalle ma­niche, vi scivola, vi scivola, vi sguiscia come un serpe qualche cosa, di cui non v’accorgete. Monsignore, la vita! […] quando ve la vedete d’improvviso consistere davanti così sfuggita da voi; […]! Con una faccia che era la mia stessa, ma così orribile, che non ho potuto fissarla…

L’immagine della manica della tunica da cui scivola via la vita è plastica e drammatica. E’ paradigma comune a tutti gli esseri umani.

(Si riaccosta alla Marchesa)

A voi non è mai avvenuto, Ma­donna? Vi ricordate proprio di essere stata sempre la stessa, voi? […]. Ma tutti, pur non di meno, seguitiamo a tenerci stretti al nostro concetto, così come chi invecchia si ritinge i capelli. Che importa che questa mia tintura non possa essere, per voi, il color vero dei miei capelli? – Voi, Madonna, certo non ve li tingete per ingannare gli altri, né voi; ma solo un poco – poco poco – la vostra immagine davanti allo specchio. Io lo faccio per ridere. Voi lo fate sul serio. Ma vi assicuro che per quanto sul serio, siete mascherata anche voi, Madonna; e non dico per la venerabile corona che vi cinge la fronte, e a cui m’inchino, o per il vostro manto ducale; dico soltanto per codesto ricordo che volete fissare in voi artificialmente del vostro color biondo, in cui un giorno vi siete piaciuta; o del vostro color bruno se eravate bruna: l’immagine che vien meno della vostra gioventù.

Poi:

Ridereste per caso del Papa in veste di prigioniero?- No.- Saremmo pari.- Un mascherato io, oggi, da penitente: lui, domani, da prigioniero. Ma guai a chi non sa portare la sua maschera, sia da Re, sia da Papa.

All’abate dunque, Enrico IV ha rivolto il suo sfogo accorato e sincero (sincero per la parte che sta recitando; ma questo il lettore/spettatore ancora non lo sa: Enrico IV, ingannato dal fato e dagli uomini, è adesso il grande ingannatore). Magistrale la doppia chiave di lettura e di interpretazione per chi voglia intendere:

ENRICO IV: […] un’altra cosa! Un’altra cosa! (Se li chiama intorno e dice piano, in gran segreto:) Non basta che mi riceva. […]: la mia vera condanna è questa – o quella – guardate (indica il suo ritratto alla parete, quasi con paura), di non potermi più distaccare da que­st’opera di magia! – Sono ora penitente, e così resto; vi giuro che ci resto fin­ché Egli non m’abbia ricevuto. Ma poi voi due, dopo la revoca della scomu­nica, dovreste implorarmi questo dal Papa che lo può: di staccarmi di là (in­dica di nuovo il ritratto), e farmela vivere tutta, questa mia povera vita, da cui sono escluso… Non si può aver sempre ventisei anni, Madonna!   […] Sono nelle vostre mani… (Si inchina.) Madonna! Monsi­gnore!

(E fa per ritirarsi, […]; se non che, scorto il Belcredi […] supponendo che voglia rubargli la corona imperiale posata sul trono, tra […] lo sgomento di tutti, corre a prenderla e a nascondersela sotto il sajo, e con un sorriso furbissimo negli occhi e sulle labbra torna a inchinarsi ripetutamente e scompare. La marchesa è così profondamente commossa, che casca di schianto a sedere, quasi svenuta).

Sull’immagine di Matilde sopraffatta dai diversi sentimenti, cala il sipario.

Finisce così il primo atto della tragedia di Pirandello, con questa doppia immagine desolata e vivissima di un uomo e una donna vinti da una vita che non hanno vissuto; un uomo che pare voglia ritrovare la propria strada e riappropriarsi di quella vita scivolatagli via, ma che è ancora avvinghiato al suo presente: in quella furbizia che aleggia sul suo viso, è tristemente condensata la tragicità del suo destino.

Continua…

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