Lido Gedda, Recitare l’Enrico 4. di Pirandello, Roma, Laterza, 1993, BMF, COLL 59.1039
di Vincenza Bordenca
Continua dalla quinta parte
Il secondo atto si apre in una
Altra sala della villa, contigua a quella del trono […]. Nel pomeriggio avanzato dello stesso giorno.
In scena sono presenti il dottore, Belcredi e Matilde. Quest’ultima
[…] si tiene appartata, fosca, evidentemente infastidita da ciò che dicono gli altri due […], perché nello stato d’irrequietezza in cui si trova, ogni cosa la interessa suo malgrado, impedendole di concentrarsi a maturare un proposito più forte di lei, che le balena e la tenta.[…], perché istintivamente sente come il bisogno d’esser trattenuta in quel momento.
BELCREDI: Sarà, sarà come lei dice, caro dottore, ma questa è la mia impressione.
DOTTORE: Non dico di no; ma creda che è soltanto… così, un’impressione.
BELCREDI: […]: però l’ha perfino detto, e chiaramente!
(voltandosi alla Marchesa): Non è vero, Marchesa?
DONNA MATILDE: ( frastornata, voltandosi). Che ha detto?
Mentre i due uomini commentano le parole di Enrico IV cercando di valutarne il peso e scoprire la verità nascosta tra le righe dei discorsi sconclusionati dell’uomo, il terremoto emotivo di Matilde prosegue sotto lo sguardo attento, e geloso, di Belcredi. Quest’ultimo, inizialmente superfluo ed estraneo alla recita, aveva voluto poi esserne parte, mosso da una sorta di dispetto e curiosità. Un elemento questo che, apparentemente irrilevante per la dinamica della vicenda nella sua fase iniziale, assume via via un peso sempre maggiore fino a diventare, invece, determinante per il compimento del destino di Enrico IV (e non soltanto).
Sul finire del primo atto e all’inizio di questo secondo, si configurano pertanto i primi elementi che adesso preparano e porteranno in seguito all’infausto esito finale. L’elemento tragico corre lungo le fila della vicenda: i destini dei personaggi si intrecciano in un groviglio di vite e disegni tragicamente predestinati.
Per il momento prosegue, tra serio e faceto, la diatriba dei tre con le spiegazioni pseudoscientifiche del dottore, lo scetticismo di Belcredi e la certezza di Matilde di essere stata riconosciuta, con tutto quello che per la donna questo significa. (Ricordo che, come già indicato, le citazioni qui di seguito non sempre rispecchiano il testo nella loro successione.)
DONNA MATILDE (recisa, vibrante). Io sono sicurissima ch’egli m’ha riconosciuta!
DOTTORE: Non è possibile… non è possibile…
BELCREDI (contemporaneamente). Ma che!
DONNA MATILDE (ancora più recisa, quasi convulsa).M’ha riconosciuta, vi dico. Quand’è venuto a parlarmi da vicino, guardandomi negli occhi, proprio dentro gli occhi- m’ha riconosciuta!
BELCREDI: […]! Non m’ha lasciato un momento di respiro, e dite che ha parlato sempre di voi?
DONNA MATILDE: Su questo non c’è dubbio! – Me l’hanno detto i suoi occhi, […]
DONNA MATILDE: […]! E allora il suo discorso m’è parso pieno, tutto, del rimpianto della mia e della sua gioventù- per questa cosa orribile che gli è avvenuta, e che l’ha fermato lì, in quella maschera da cui non s’è potuto più distaccare, e da cui si vuole, si vuole distaccare!
DOTTORE: Permettete che parli io adesso? […]. Sono stato molto attento a tutto ciò che ha detto, e ripeto che quella certa elasticità analogica, propria di ogni delirio sistematizzato, è evidente che in lui è già molto… come vorrei dire? rilassata. Gli elementi, insomma, del suo delirio non si tengono più saldi a vicenda.[…], per bruschi richiami che lo strappano-[…]dimostra una … sì, veramente considerevole attività cerebrale. Molto confortante, […]. Ora, ecco, se con questo trucco violento che abbiamo concertato…
L’incontro appena avvenuto con Enrico IV, inaspettato e inevitabile, ha cambiato le carte in tavola, già minuziosamente apparecchiate dal dottore, e il suo piano d’azione si perfeziona; così Enrico IV non incontrerà solamente la Matilde di venti anni prima, ma anche quella di oggi: avrà davanti agli occhi una doppia immagine di Matilde di Canossa, nelle persone della marchesina Frida e della Marchesa Matilde. Le due donne gli dovrebbero comparire innanzi improvvisamente e contemporaneamente. Questa esperienza unica, e pure terrificante, dovrebbe far vivere al povero folle un’emozione talmente violenta, sconvolgente, da scuoterlo nel profondo fin nelle fondamenta della sua pazzia e fargli così realizzare che son passati venti anni, e permettergli, finalmente, di recuperare la reale dimensione del tempo.
DOTTORE: […]. Se riusciamo a scrollarlo, […], a spezzare d’un colpo con questo strappo violento i fili già rallentati che lo legano ancora alla sua finzione, ridandogli quello che egli stesso chiede (l’ha detto: “Non si può aver sempre ventisei anni, […]” ) la liberazione da questa condanna […]
DOTTORE: […], come un orologio che si sia arrestato a una cert’ora. Ecco, sì, […], aspettare che si rifaccia quell’ora- là, uno scrollo!- e speriamo che esso si rimetta a segnare il suo tempo, dopo un così lungo arresto.
La mortificazione cui Matilde va sicuramente incontro nel confronto impietoso tra la prospera avvenenza giovanile della figlia e la propria bellezza ormai sfiorita, rende palese a un Belcredi frastornato l’interesse della donna per Enrico IV.
BELCREDI (piano, a Donna Matilde). Eh, per Dio! Ma dunque…
DONNA MATILDE (rivoltandosi con viso fermo). Che cosa?
La verità viene fuori inequivocabilmente:
BELCREDI: V’interessa tanto veramente? Tanto da prestarvi a questo? E’ enorme per una donna!
BELCREDI: Quanto basta […] per offendere me.
Impulsiva e indifferente alle conseguenze, e sincera in modo disarmante lei replica:
DONNA MATILDE: Ma chi pensa a voi in questo momento!
Il dramma della gelosia è compiuto. Non possiamo soffermarci più di tanto su questi passaggi, su quel crescendo di sentimenti inaspettati che si rivelano improvvisamente sorprendendo non soltanto il lettore/ spettatore, ma anche chi li vive. Sentimenti che riemergono e prendono autonomamente forza e vita a dispetto delle convenienze e delle circostanze e della volontà stessa della donna; non per niente all’inizio del secondo atto scopriamo che Matilde “istintivamente sente come il bisogno d’esser trattenuta”.
Leggendo questi passi è facile immaginarne la rappresentazione a teatro in un gioco di voci che si interrompono e si sovrastano, in un’alternanza di toni alti, striduli quasi, e bassi, che pare parlino a se stessi. Le emozioni hanno voci, dissimulate o chiare e vibranti, e prendono corpo riempiendo la scena.
Apriamo una piccola parentesi. Un’opera teatrale ha, ovviamente, una doppia valenza: una cosa è leggerne il testo, immaginando la scena e i personaggi, conferendo loro una figura, un corpo, difficilmente una voce, e un’altra è vedere le battute prendere corpo e voce, animarsi e diventare realtà fisiche, concrete, sul palco. Avviene lo stesso anche nel cinema con la trasposizione di un romanzo in film ma, mentre un romanzo può rimanere in eterno un’opera di carta, l’opera teatrale no, è scritta per essere rappresentata, per diventare carne viva. Sembra banale, tanto ovvia è la cosa, ma l’impatto è decisamente diverso. E ogni regia con gli attori diversi dà vita a tragedie diverse.
[…] l’analisi delle varie maschere dell’Enrico IV mostra bene come l’arte attorica (e anche quella registica, […]) sia un’inventività che si esercita non già a partire dal nulla, bensì a partire da un testo. La sapienza teatrale è un’ininterrotta variazione sul tema, ma il tema è il testo.[..] lavorare lungo la linea che porta dal testo alla scena, […] è ugualmente possibile il percorso inverso, dalla scena al testo, […] proprio a proposito di Pirandello che -[…]- è “studiabile proprio a partire dagli allestimenti delle sue opere”. (Lido Gedda, Recitare l’Enrico IV di Pirandello, Laterza, 1993- posseduto dalla Marucelliana, Coll.59.1039)
L’opera dello scrittore agrigentino è stata a lungo un cavallo di battaglia, banco di prova di messinscena e abilità recitative di tanti illustri attori di teatro e non (Renzo Ricci, Salvo Randone, Tino Carraro, Romolo Valli, Giorgio Albertazzi, Marcello Mastroianni…). Sarebbe interessante analizzarne le diverse versioni, vedere come l’opera, nelle mani di una compagnia teatrale e di un regista, cresce e si trasforma come creatura viva. E ancor più valutare gli aggiustamenti che lo stesso scrittore attua nelle diverse edizioni della sua creatura letteraria.
Come scopriamo per ammissione stessa dell’autore, l’Enrico IV è stato scritto pensando a un attore in voga in quegli anni, Ruggero Ruggeri; quindi un vero e proprio abito cucito su misura per le caratteristiche fisiche e professionali dell’attore che avrebbe prestato il proprio corpo, il proprio volto e la propria anima a un folle disperato.
Caro amico […] Le dissi a Roma l’ultima volta che pensavo a qualche cosa per Lei. Ho seguitato a pensarci e ho maturato alla fine la commedia, che mi pare tra le mie più originali: Enrico IV, tragedia in 3 atti […] d’una veramente insolita profondità filosofica ma viva tutta di una drammaticità piena di non meno insoliti effetti. (L.Pirandello, Lettera a Ruggero Ruggeri del 21 Settembre 1921)
Già nell’ottobre dell’anno prima aveva scritto all’attore:
Una commedia nuova […]. La penserò e la scriverò, tenendo Lei sempre presente, come ho fatto per
(Pirandello nomina i protagonisti delle altre sue opere interpretati sempre da Ruggeri) e poi prosegue:
[…], che mi vivono sempre davanti con la sua persona, con la sua voce, col suo gesto e coi suoi silenzi. (L.Pirandello, Lettera a Ruggero Ruggeri del 12 ottobre 1920)
Pirandello ammirava nell’artista la capacità di interpretare più che di recitare. Di governare la scena più con i silenzi e le espressioni allusive, che non con l’arte oratoria della declamazione. Enrico IV non urla la propria angoscia, la soffoca dentro il proprio animo: il dolore troppo grande, annienta, ammutolisce, toglie il fiato. Inoltre non c’è consolazione, né sollievo, resta qualcosa di inespresso, il suo è un urlo muto, senza voce, quasi un segreto da serbare dentro di sé con dignità. Ne deriva una forma di distacco ironico, e autoironico cinismo, una sorta di scetticismo esistenziale.