Luigi Pirandello, Enrico IV – CENTENARIO – Parte settima

Gian Lorenzo Bernini, Monumento a Matilde di Canossa, Vaticano, San Pietro

di Vincenza Bordenca

Continua dalla sesta parte

Torniamo al testo di Pirandello e, più precisamente, a quelle pagine in cui avviene il secondo incontro di Enrico IV con Matilde: momento della tragedia in cui persona e personaggio si confondono sempre più, sfuggono a ogni controllo, e finiscono col fondersi; i loro confini infatti si assottigliano, e dalla maschera del personaggio sempre più trasparente, emerge il vero volto della persona.

In un primo momento, tutto ruota intorno alla recita sempre meno convinta di Matilde Spina che abbiamo già visto mostrare delle crepe, e che adesso non riesce più a seguire le regole del gioco; poi vedremo anche Enrico IV vacillare nella sua recita e, infine, abbandonarla del tutto.

Ma, intanto, analizziamo il personaggio femminile. A questo secondo incontro tra i due, la donna, ancora nei panni della suocera di Enrico IV, la duchessa Adelaide, non mostra i sentimenti consoni al proprio ruolo di madre tenera e premurosa. Il genero si scusa con lei per non essere stato, fino a quel momento, un buon marito per Berta e mostra segni di ravvedimento in tal senso. Ma, a dispetto delle vesti e della maschera che indossa, e di quello che avrebbe dovuto dire e provare come madre di Berta, Matilde è, invece, molto più se stessa, nel turbine di sentimenti da cui si sente letteralmente sopraffatta: prevale in lei il bisogno di percepire i veri sentimenti dell’uomo nei suoi confronti e di comunicargli, in qualche modo, i propri. Sul copione da recitare, ha la meglio l’urgenza di sfruttare l’occasione irripetibile di trovarsi faccia a faccia con lui, e chiarire così una situazione rimasta troppo a lungo indefinita, dando voce, finalmente, a venti anni di silenzio.

ENRICO IV:[…]: Vostra figlia vi è cara veramente?

DONNA MATILDE (smarrita) Ma sì, certo…

ENRICO IV: E volete che la ricompensi con tutto il mio amore, con tutta la mia devozione dei gravi torti che ho verso di lei, […].

ENRICO IV: Ebbene, allora, volete?

DONNA MATILDE: (c.s.): Che cosa?

ENRICO IV: Che io ritorni all’amore di vostra figlia?

La guarda, e aggiunge subito in tono misterioso, d’ammonimento e di sgomento insieme:

Non siate amica, […] della Marchesa di Toscana!

DONNA MATILDE: Eppure vi ripeto che ella non ha pregato, non ha scongiurato meno di noi per ottenere la vostra grazia…

La donna si fa coraggio. I due si sono appartati e possono parlare liberamente: lei incalza:

DONNA MATILDE (lo guarda, poi pianissimo, come confidandosi) Voi l’amate ancora?

ENRICO IV (sbigottito) Ancora? Come dite ancora? Voi forse, sapete? Nessuno lo sa! […]

DONNA MATILDE: Ma forse lei sì, lo sa, se ha tanto implorato per voi!

ENRICO IV (la guarda un po’ e poi dice) E amate la vostra figliuola?

L’uomo , stizzito, pone fine alla conversazione con la suocera in un misto di stupore e rabbia e si rivolge ora al dottore:

[…] con esasperazione:

Mi parla dell’altra!

Ed eccitandosi sempre più:

Con un’insistenza, un’insistenza che non riesco proprio a spiegarmi!

 La tragedia di Pirandello pare indossare anch’essa una maschera, quella di commedia degli equivoci: i diversi livelli di realtà si sovrappongono e confondono, la trama si infittisce di doppi sensi e di differenti verità suggerite che vengono puntualmente fraintese, e l’unica verità che emerge è quella della sostanziale incomunicabilità degli esseri umani chiusi, ciascuno di essi, nel proprio “personaggio” , nascosti da una maschera che, se da una parte li protegge, dall’altra li offre nudi e indifesi al giudizio altrui e vulnerabili di fronte alla libera interpretazione dell’altro. Così la conversazione tra Enrico IV e Matilde, anziché avvicinarli nella scoperta del loro reciproco amore, li allontana ormai irrimediabilmente perché ciascuno di essi ha la propria verità, o meglio, crede di averla.

Preso da una crescente rabbia che non riesce più a dominare, Enrico IV si congeda dai suoi ospiti, anzi, li congeda accompagnandoli:

Davanti alla soglia […], fin dove li ha accompagnati, li licenzia, ricevendone l’inchino. […]. Egli richiude la porta e si volta subito, cangiato:

Buffoni! Buffoni! Buffoni! […]

E più avanti:

Basta! Finiamola! Mi sono seccato!

Anche in Enrico, come già in Matilde dunque, la persona prevale sul personaggio e le emozioni e i sentimenti rimasti a lungo inespressi emergono prepotenti: non è Enrico IV imperatore di Germania adesso a parlare, ma l’uomo nudo e crudo dinnanzi alla propria infelicità. Prosegue infatti:

Poi subito, come se, a ripensarci, non se ne possa dar pace, e non sappia crederci:

Perdio, l’impudenza di presentarsi qua, a me, ora, col suo ganzo accanto…

Orgoglio ferito, amore disilluso, gelosia e rabbia irrompono in lui ed esplodono sul palco con un vero colpo di scena. Il suo monologo più che letto, andrebbe veramente goduto a teatro, con quel modo istrionico dell’uomo di giocare al gatto e al topo con i consiglieri, di far loro scorgere una verità per poi subito dopo metterla in dubbio, in un gioco quasi perverso di finzione e mistificazione.

Il fiume delle sue parole ha rotto gli argini e sommerge i poveri servitori sempre più atterriti dalla violenza verbale dell’uomo e dalle espressioni furiose della sua maschera.

S’arresta d’un tratto, notando i quattro che si agitano, più che mai sgomenti e sbalorditi.

Vi guardate negli occhi?

Rifà smorfiosamente i segni del loro stupore.

Ah! Eh! Che rivelazione? – Sono o non sono?- Eh via, sì, sono pazzo!

Si fa terribile: […]!

Li forza a inginocchiarsi tutti a uno a uno[…] Alla vista dei quattro inginocchiati si sente subito svaporare la feroce gajezza, e se ne sdegna:

[…]- Eccomi qua: potete credere sul serio che Enrico IV sia ancora vivo? Eppure, […] parlo e comando a voi vivi. […] Vi sembra una burla anche questa, che seguitano a farla i morti la vita?- Sì, qua è una burla: ma uscite di qua, nel mondo vivo. […] Non sono più pazzo? Ma no! Non mi vedete?- Scherziamo alle spalle di chi ci crede.

Il lungo discorso di Enrico IV, folle nella sua lucidità, continua interrotto solo dalle parole timorose e stupite di Landolfo e dei suoi colleghi che non sanno cosa pensare e oscillano tra incredulità e prudenza, cercando di guadagnare tempo per muoversi senza pericoli nella nuova e improvvisa apparente realtà.

ENRICO IV: […] conviene a tutti far credere pazzi certuni […]. Perché non si resiste a sentirli parlare. Che dico io di quelli là che se ne sono andati? Che una è una baldracca, l’altro un sudicio libertino, l’altro un impostore…

ENRICO IV: […] Perchè trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi […]

Ormai non ha più freni, i suoi sentimenti feriti, a suo sentire, calpestati e derisi, scorrono liberi e lasciano presagire qualcosa di terribile. Le ombre che si addensano all’orizzonte cominciano a scendere visivamente anche sul palco: il lungo giorno volge lentamente al termine, e il buio che incombe in scena concretizza quello sceso sugli animi dei personaggi: dei quattro servitori sempre più atterriti e confusi, e di Enrico IV rimasto, infine, nel silenzio.

[…] L’ombra , nella sala, comincia ad addensarsi, accrescendo quel senso di smarrimento […] da cui quei quattro mascherati sono compresi e sempre più allontanati dal grande Mascherato,  rimasto assorto a contemplare una spaventosa miseria che non è di lui solo, ma di tutti.

Enrico IV, appare ora come svuotato dal lungo e amaro sfogo rabbioso; sul momento, la consapevolezza della miseria umana smorza i toni e l’uomo pare si rassegni ad essa. Si arrende al buio, e ai servitori che gli chiedono se debbano portargli  la sua lampada ad olio, o preferisca invece finalmente la luce elettrica, (ormai giocano a carte scoperte) risponde: “No: m’accecherebbe.- Voglio la mia lampa.”.

Ma ormai il suo cuore è in subbuglio, come un vulcano appena sopito torna a emettere nuovamente fuoco e rabbia:

Quasi tra sé, con violenta rabbia contenuta:

Perdio! debbo farla pentire d’esser venuta qua! Da suocera oh, mi s’è mascherata… E lui da padre abate…-[…]

Giunge a quel punto Giovanni, nella recita, un frate che ogni sera giunge a corte per scrivere le memorie dell’imperatore. Enrico IV all’arrivo del monacello si ricompone: torna a calarsi nella recita del suo ruolo, chiudendo per il momento dentro di sé i sentimenti che lo agitano: inizia a dettare episodi della sua vita imperiale, mentre

Comincia a calare la tela.

Si chiude così il secondo atto, con questo gioco altalenante di libera fuoriuscita di magma incandescente e poi di freddo controllo e dominio di sé, ma la tela che scende lentamente e inesorabilmente, lascia indovinare che, ormai, niente più sarà come prima.

Continua…

Vai ad inizio pagina