L’OPERA E LA VITA DI MARISA MADIERI – Prima parte

di Vincenza Bordenca

Nella settimana in cui si celebra la giornata delle donne, vogliamo dedicare queste pagine a una scrittrice italiana del Novecento che, prima di essere autrice di raffinato talento, è stata una donna con la D maiuscola, figlia, sorella, amica, moglie, madre. Nelle sue opere vivono diverse figure femminili, reali, tratte dalla quotidianità della vita, e create, inventate e anche antropomorfizzate e, in tutte, la scrittrice sa cogliere la profonda complessità dell’essere femminile; lei è Marisa Madieri (Fiume, 08/05/1938 – Trieste, 09/08/1996).

E’ una donna moderna ancora oggi, lo era già nella prima metà del secolo scorso. Il suo carattere forte e determinato, frutto sicuramente delle esperienze dolorose giovanili che l’hanno forgiata, è anche il risultato delle conquiste femminili degli ultimi secoli e decenni. Marisa Madieri è una donna di oggi con le contraddizioni che noi donne ci portiamo dentro e tutti gli ostacoli che ci gravitano addosso; lei sa inseguire i propri sogni e trovare il coraggio di affermare se stessa, consapevole del proprio ruolo nella società e nella famiglia, nella coppia. Ha in sé l’eredità delle madri, ma è pronta a dare altro alle proprie “figlie”, (spiegherò in seguito il significato di queste virgolette), e a insegnare nuovi valori a figlie e figli, mantenendo quelli di ieri che hanno ancora ragione d’essere.

La sua produzione letteraria non è copiosa. E’ diventata scrittrice in età adulta ed è morta prematuramente, quindi di lei abbiamo “soltanto” (piccolo il numero delle pagine ma grande il loro valore letterario e umano) il romanzo Verde acqua del 1987, il racconto-fiaba La radura del 1992, la raccolta di racconti postumi del 1998 La conchiglia e altri racconti, uscita due anni dopo la sua morte avvenuta nel 1996, e infine il frammento di un romanzo incompiuto Maria, poche pagine uscite nel 1999, e poi nel 2007 in una nuova edizione ampliata che ne ingloba anche i frammenti e gli appunti manoscritti. Poche pagine dunque, che però racchiudono tutto un mondo umile e grandioso al tempo stesso, vero e autentico, fatto di sentimenti, di sogni e dolori, reso in quel modo intenso e vibrante, sebbene semplice e pacato, che ha fatto sì che la sua opera venisse riconosciuta a livello anche internazionale. E’ stata tradotta infatti in più lingue, letta e apprezzata fuori dai confini nazionali e si è guadagnata vari riconoscimenti.

Prima di parlare della sua opera, voglio però ancora soffermarmi sulla donna Marisa perché, se uno scrittore nelle sue opere lascia sempre qualcosa di sé, questo è vero più che mai per la Madieri, di più, lei, nelle sue pagine, fa un dono di se stessa agli altri.

Marisa nasce a Fiume nel 1938, (quando la città era ancora italiana) e lì vive fino alle soglie della prima adolescenza: nel 1949, per l’annessione di Fiume alla Iugoslavia, costretta a lasciare con la famiglia la propria terra, conosce la triste realtà di rifugiata a Trieste. E’, questo, il primo grande dolore, ancora poco più che bambina, e il tema dell’esilio sarà nelle sue pagine uno dei motivi ricorrenti: a volte diretti, altre sottesi. Infatti il dolore vissuto riaffiorerà tante volte ma sarà sempre pacato, bisbigliato quasi, e a volte taciuto, solo suggerito; in una delle sue pagine del romanzo diario Verde acqua, per esempio, troviamo un episodio in cui il motivo dell’esilio è, appunto, suggerito, colto da chi conosce la storia dell’autrice, ma che passerebbe inosservato a una lettura più distratta.

Marisa con la famiglia e tanti altri rifugiati vive all’interno del Silos di Trieste, (un ex granaio divenuto alloggio per i tanti profughi giunti a Trieste in quegli anni) e ricorda così, una sera d’estate:

Camminavo in punta di piedi, sotto le luci attenuate dello stanzone, […]. Mi accostavo alla finestra e guardavo fuori la notte tiepida e serena. C’era persino qualche grillo che, esule anch’egli da prati lontani, trovava riparo e voglia di cantare nel cemento del cortile o negli aridi muri del Silos. (M. Madieri, Verde acqua, La radura e altri racconti , Einaudi, Torino, 2006, pp. 118-119)

In quella breve frase incidentale, “esule anch’egli da prati lontani”, che sintatticamente potrebbe esser tolta senza cambiare il significato della frase, è contenuto, invece, tutto il senso di quel ricordo. Nella delicata e casuale immagine del grillo, la scrittrice trasfonde il proprio dolore, senza parlarne. Il grillo esule non trova solo riparo, ma anche la voglia di cantare. Qui c’è tutta la capacità di accettare e trasformare la sofferenza, vista come uno dei tanti ingredienti dell’esistenza umana e non soltanto, uno dei tanti colori della vita sempre e comunque amata, sempre e comunque intensamente vissuta, che è il credo dell’autrice.

Il dolore di quegli anni è stato doppio, non solo quello dell’esilio, ma anche quell’altro, ugualmente profondo, dell’essere profuga nel proprio paese, italiana esule in Italia. Non c’erano solamente le difficoltà e il disagio della vita all’interno del Silos di Trieste, una sorta di isola istriana nella città italiana, troppo fredda e umida d’inverno e calda asfissiante d’estate, non pativa soltanto le precarie condizioni igieniche e la mancanza di intimità familiare, ma c’era anche, forte, il senso di esclusione, di sentirsi estranea e indesiderata, e in un certo senso tradita, dai suoi stessi connazionali.

Eppure in lei e nella sua opera non ci sono tracce di risentimento o intolleranza, o di odio o nulla che possa somigliarvi: non erano sentimenti suoi.

Marisa ragazza ha conosciuto povertà e imbarazzo, la vergogna delle proprie condizioni, specie nei rapporti con le compagne di scuola. In un primo momento, reagisce a tanto dolore chiudendosi in mondo tutto suo, di disegni e di libri, sognando una vita fuori dal Silos.

In un altro passo di Verde acqua leggiamo:

[…] qualche amica conosciuta in colonia. Una di queste cominciò a prestarmi dei libri. Da quando avevo lasciato Fiume, oltre all’Iliade e all’Odissea studiati a scuola, non ne avevo più letti. I libri del papà erano ancora chiusi nei cassoni in un deposito […]. I libri quindi mi sembravano un frutto proibito. Quando ne avevo uno a disposizione, rimanevo per ore a leggere, avida e gelosa […] Guerra e pace, […] fu per la mia disadorna adolescenza una folgorazione […]. Mi innamorai di Natascia, di Maria, di Sonia, del principe Andrea […]. Con loro piansi e sognai. La vita al Silos mi sembrava più sopportabile se alla fine Natascia sposava Pierre e diventava una mamma dai fianchi robusti, […] e Sonia si dipingeva i baffi col nerofumo sul bel volto acceso di passione. La vita dunque, fuori, era grande, bella, dolorosa e sacra e io un giorno l’avrei raggiunta. (p. 80-81)

I libri per lei non sono soltanto distrazione ed evasione dalla sua condizione infelice, sono molto di più: diventano un vero e proprio ancoraggio alla vita vera, poiché quella che sta vivendo da profuga non la sente sua. Quelle pagine lette avidamente diventano quello spazio e quel tempo, quei momenti suoi, dove tornare a credere che ci sia altro lì fuori, e che sicuramente lei lo avrebbe trovato, e che avrebbe avuto anche lei il suo posto al sole.

Se quindi, in questa prima fase della sua vita, i libri degli scrittori hanno rappresentato per la Madieri un porto sicuro dove approdare, e da cui ripartire rinnovata per raggiungere nuovi traguardi, i propri libri, quelli che scriverà da adulta, saranno molto di più: rappresenteranno una sorta di seconda vita parallela, voluta, evocata, consapevolmente ritagliata sul filo della memoria, dei ricordi che si riallacciano.

Resa forte da tanta sofferenza e disagi vissuti, emergono in Marisa tutta la sua forza interiore e la sua determinazione, la sua innata capacità di accogliere il bello e il brutto dell’esistenza, e il suo grande amore per la vita, sempre e comunque, fino alla fine.

Marisa porta a compimento con successo i suoi studi al Liceo classico Dante Alighieri dove conoscerà il futuro marito, Claudio Magris. Ho scelto di non accennare subito al suo illustre marito: in genere si legge “Marisa Madieri, nota e apprezzata scrittrice italiana di Fiume, prima moglie di Claudio Magris, grande scrittore e germanista di fama internazionale”. Non me ne vorrà Claudio Magris, ma ho voluto presentare Marisa Madieri a prescindere, anche se prescindere dal legame umano di coppia e dallo stretto connubio di autori non è in questo caso facile, poiché i due scrittori hanno condiviso, nel senso più profondo e vero, ogni aspetto delle loro vite. Ma per coerenza di scelta, nella settimana dedicata alla festa della donna, non ho voluto oscurare la scrittrice all’ombra del grande marito. Chi conosce la loro opera sa d’altronde, che nessuno dei due ha oscurato l’altro, ma che, anzi, entrambi riflettevano la propria luce sull’altro.

Presa la maturità si laurea all’università di Trieste in Lingua e letteratura inglese. Intanto trova pure il tempo di conseguire il brevetto di pilota aereo, e questo la dice lunga sul coraggio della donna e sulla sua voglia di vivere tutte le emozioni che la vita le offre. Entra quindi nel mondo del lavoro, prima presso una compagnia di assicurazioni, e poi come insegnante di inglese, mentre si prende cura della propria famiglia: lei e Claudio avranno due figli, Paolo e Francesco.

Guidata, inoltre, da un vero e sentito amore per il prossimo e dal sentimento più autentico di amore per la vita, fonda il C.a.v., Centro aiuto per la vita (che oggi porta il suo nome) presso cui svolge un’opera di volontariato molto intensa che non si limita alle ore dei turni presso il centro, ma che va oltre e che la coinvolge anche in casa, con il marito e i figli, come si legge in più di una pagina del suo romanzo.

Continua

Vai ad inizio pagina