Marisa Madieri, La conchiglia e altri racconti, Milano, Libri Scheiwiller, 1998, BMF MAR C 1 5550
di Vincenza Bordenca
Continua dalla quarta parte
Se in Verde acqua abbiamo visto non solo la volontà di recuperare il passato, ma anche quella di fermare il presente, al futuro si rivolge invece l’attenzione della Madieri ne La conchiglia. A quell’unico futuro per lei ancora possibile, quando le è chiaro ormai che avrebbe perso la sua battaglia contro il cancro. È il futuro della propria assenza accanto al marito, concretizza il desiderio di indicare al compagno di una vita una via per superare quell’ addio definitivo, è un voler guidare in qualche modo il proprio uomo nelle impervie strade del dolore e della mancanza. È donargli un’ancora per non annegare.
Nel bellissimo breve racconto, (poche pagine rimaste incompiute), un lui ormai anziano racconta il proprio amore di tanti anni fa per la sposa Naipuni prematuramente scomparsa. Siamo in un non meglio definito momento storico, può essere un passato come anche un presente. Direi che si tratti di un presente che è anche passato e può diventare anche futuro. È il tempo eterno e sempre uguale dell’amore.
Ci troviamo in una non meglio specificata isola in mezzo all’oceano; nel racconto mancano dettagli della storia narrata, non sono necessari, perché quello che conta non sono i fatti. Della sua isola un posto in particolare è caro all’uomo:
A est del monte Poike […] c’è un punto particolare, […], in cui si trova una pietra […] chiamata “roccia dove si osservano le stelle”. I nostri saggi studiano qui i misteriosi movimenti degli astri e delle costellazioni […]. La pietra delle stelle è indissolubilmente legata alla mia vita, o meglio a quella parte della mia vita che Naipuni non si è portata via. È trascorso tanto tempo dalla sua morte, che quasi non ne rammento i lineamenti. È come se il suo viso si fosse stemperato nelle cose, affidandosi ad esse. Talvolta una folata di vento tiepido mi riporta d’improvviso alla memoria l’odore della sua pelle, il volo di un uccello mi ricorda la grazia della sua giovinezza, la pioggia che mi bagna è la carezza lieve delle sue dita.
Naipuni è stata la mia sposa. La conoscevo fin dall’infanzia. Giocavamo assieme […]. ( M. Madieri, La conchiglia e altri racconti, Milano, Libri Scheiwiller, 1998, pag. 15)
Così improvvisamente, quasi per caso, l’uomo parla dell’amore giovane della sua vita e Naipuni appare per la prima volta nel racconto con la propria assenza.
La sua morte improvvisa (anche qui il lettore non scopre né quando, né come), trasforma agli occhi di lui quello che fino a poco prima era stato un Paradiso in terra, in una terra di esilio: il tema dell’esilio, direi uno dei motivi “necessari” nell’opera della Madieri, non è qui quello fisico-geografico, bensì quello dell’anima. I diversi scorci del paesaggio che nelle diverse fasi della giornata avevano fatto da cornice idilliaca ai loro momenti ricchi di gioia, sottolineando e donando intensità alla loro felicità, diventano ora luoghi brulli e inospitali, e la natura prima prodiga e ricca di doni per i due innamorati, pare ora restituire al vedovo la desolazione e la tristezza di una incolmabile assenza.
Come mi appariva vasta la mia isola a quel tempo e amico l’oceano in cui mi tuffavo con Naipuni! […]. L’universo allora non era un vuoto sterminato e muto ma una dimora accogliente, […] (ivi, pag. 24)
Quei momenti bui e disperati sono raccontati però dalla prospettiva di chi li ha superati: il vecchio vedovo aveva saputo trovare infatti nella propria arte di intagliatore e fine cesellatore di figurine in legno una via di fuga dal dolore. E il libro inizia a partire dal presente, recuperando poi la memoria del passato (altro tema caro della scrittrice, quello della memoria)
Nel tempo lungo della mia vita ho coltivato, pescato, navigato, costruito capanne […]. Seguendo le orme di mio padre, sono diventato un abile scultore e incisore. È lui che mi ha insegnato a ricavare dal fusto legnoso […] le statuette degli spiriti degli antenati. I momenti più belli delle mie giornate li ho trascorsi seduto a lavorare indisturbato […] Ho sempre amato lasciar correre i pensieri tenendo le mani occupate. (ivi, pag. 8)
L’uomo era riuscito a crearsi una vita senza Naipuni e lentamente l’aspro dolore dei primi tempi si era infine stemperato in una dolce tristezza piena di malinconia.
Così il marito della scrittrice, Claudio Magris, dovrà saper trovare la propria strada senza di lei, saprà attingere forza per andare avanti oltre che negli affetti, nella propria arte, quella di fine cesellatore di figure e opere letterarie. È la via che pare Marisa indichi al suo Claudio.
L’opera ha una doppia valenza: se rappresenta un atto d’amore sicuramente per il marito, in qualche modo lo è anche per se stessa. Scrivere La conchiglia in quei particolari giorni della sua vita, ha anche significato regalarsi dei momenti solo suoi, quelli in cui si trovava sola davanti alla pagina bianca da rendere viva e far parlare, e dove Marisa trovava una delle radici più profonde del proprio essere. Grazie alla scrittura ha potuto vivere normalmente quelli che sapeva essere i suoi ultimi giorni.
Claudio Magris, nella postfazione all’opera postuma, riferirà che in lei non c’era la volontà di affrettarsi per concludere il racconto, non stava gareggiando con la morte. In Marisa c’era solo il piacere di scrivere, di raccontare la favola della vita, sempre bella anche quando non c’è un lieto fine. Era serenamente pronta ad accogliere vita e morte con quel sentimento di amore profondo e di totale accettazione che sono sempre stati suoi, come abbiamo visto, sin dalle prime esperienze di morte animale della sua infanzia.
Il racconto del vecchio intagliatore prosegue sul filo dei ricordi:
[…]. Rimanevamo a lungo distesi al sole, l’uno accanto all’altra, in perfetto silenzio. Talvolta prendevo Naipuni in braccio, scalpitante e ridente, e la portavo con me dentro le acque sempre un po’ fredde dell’oceano. Giocavamo spensierati come ai tempi della nostra infanzia e io le cingevo la vita, la immergevo tutta e poi l’alzavo leggera contro il cielo. Usciva tenendo gli occhi chiusi e la testa piegata all’indietro, sicché i lunghi capelli neri si distendevano lisci e grondanti sulle spalle e la pelle bruna coperta di mille gocce riluceva come l’interno madreperlaceo di una conchiglia. […] (ivi, pp. 24-25)
Poi una frase, lapidaria
Nulla era esistito prima di noi. (ibidem, p. 25)
poi volti pagina, e quelle che seguono sono bianche.
La morte della protagonista femminile del racconto coincide tristemente con quella della sua ideatrice: scrittrice e personaggio muoiono insieme, come a sottintendere un’intima connessione di vita e morte di uno scrittore con la propria creatura letteraria. O forse perché l’azione taumaturgica della parola si era compiuta.
Fine